Abbiamo conosciuto la coppia Marras + Kiasmo nel 2018, con un primo progetto presentato da Nonostante Marras in occasione della Design Week di Milano.
Per il Fuorisalone 2019 da Circolomarras si parla ancora di collaborazione, questa volta attraverso il linguaggio della ceramica e del fatto a mano.
Le mani sono nuovamente quelle di Antonio Marras e Vincenzo D’Alba, designer di Kiasmo, che hanno dato forma a tre differenti collezioni: una linea di oggetti per la casa composta da piatti, vasi, piastrelle, bicchieri, pumi, tazzine, candele, vassoi, esposti negli spazi di Nonostantemarras; sculture e pezzi unici, nati dal recupero di ceramiche di scarto, plasmati ex-novo o manufatti industriali rimodellati, allestiti negli ambienti dello showroom; tavoli con maioliche, presentati nel giardino.
Oggetti diversi per forme e funzioni, una raccolta difforme evocativa di un passato comune che unisce Puglia e Sardegna, che riempie le teche, gli specchi e le vetrine d’epoca dell’antiquario Mauro Gallo trasformando gli spazi di via Cola di Rienzo in una Wunderkammer di ceramiche.
Aspettando che la Wunderkammer apra le porte al pubblico, Francesco Maggiore, direttore creativo di Kiasmo, ci racconta cosa è successo nei laboratori dell’azienda di ceramiche Fratelli Colì di Cutrofiano – paesino pugliese in cui è nata tutta la collezione – e intervista per noi Antonio Marras e Vincenzo D’Alba.
Ho visto lavorare Antonio Marras e Vincenzo D’Alba ininterrottamente, per giorni interni, dall’alba al tramonto; in piedi, per terra, seduti, in ginocchio, contorcersi, intrecciare mani e braccia, in un continuo misurarsi con il potenziale creativo dell’argilla.
Ho assistito al processo creativo di due artisti per certi versi opposti ma certamente complementari che avevano già dato prova di una esclusiva intesa in occasione della scorsa Milano Design Week, nella realizzazione di disegni a quattro mani per la produzione seriale di oggetti in ceramica.
Oggi, a distanza di un anno, il loro sodalizio artistico si è reiterato portando non solo alla produzione di nuove ceramiche industriali ma anche alla realizzazione di opere fatte a mano plasmando la creta e intervenendo poi con la pittura.
Un rinnovato incontro, questa volta avvenuto in Puglia che si è tradotto in un dialogo silenzioso ma serrato intrattenuto tra raffinati atti di pensiero e rabdomantiche gestualità.
Un susseguirsi di azioni fatte di accostamenti, correzioni, sovrapposizioni, associazioni, intuizioni, adattamenti, sperimentazioni che hanno dato vita a un corpus di oggetti composto da quasi cinquecento pezzi unici.
Si tratta di opere, oggetti, sculture, citazioni archeologiche, reperti dell’innocenza perduta, che rivelano nella loro incertezza e ambiguità le aspirazioni al segno e alla forma e che sembrano riaffiorare dalle stratigrafie del tempo, come frammenti della memoria.
Concepite dall’irrequietezza del gesto creativo, queste opere si mettono in gioco durante il FuoriSalone 2019 negli spazi di Nonostantemarras svelando, nella propria eterogeneità formale, uno stile eccentrico che assume l’assolutezza del segno come identità stilistica. La materia, trattata con sentimento artigiano, è animata da espressioni insolite, rappresentate da oggetti di uso quotidiano (vasi, piatti, candele, etc.) e da forme sconosciute (maschere, sculture) sottese fra l’arcano e l’arcaico.
Forme generate da una specie di bisogno primario, da un’esigenza infantile di gioco, da puri atti di fantasia che nella loro ingenuità e purezza svelano le felici e tormentate impazienze di Antonio e Vincenzo” .
Antonio, hai tradito la Sardegna per la Puglia?
Non è un tradimento, io sono ondivago, mi piace sconfinare, saltare confini, saltare muri, non avere limiti, uscire dai margini e quindi quando tu Francesco mi hai proposto di lavorare in Puglia, dove la ceramica ha una storia millenaria che si perde nella notte dei tempi, ho accettato subito. Così mosso dall’incoscienza è stato estremamente naturale esplorare un mondo, una dimensione, una disciplina di cui non avevo la minima conoscenza.
Avverto sempre il bisogno, l’urgenza e la necessità di lavorare con le mani, di sperimentare cose altre, di lavorare con materie che mi hanno sempre affascinato ma che non avevo mai avuto la possibilità di affrontare.
Partire dall’argilla ancora fresca e modificarla, plasmarla, storpiarla, bucarla, inciderla, ferirla, tagliarla e ricucirla, lavorando per ore con le mani sulla materia e vederla divenire altro, cambiando forma e volume, mi è sembrato il modo per colmare una grande mancanze, un grande vuoto nella mia vita ovvero il lavorare la ceramica con Maria Lai che me lo aveva proposto molti anni fa.
Vincenzo, Kiasmo di nome e di fatto?
Nel nome di Kiasmo si può fare tutto. Non si tratta soltanto di costruire un intreccio ma di dare a ogni cosa un’armonia tale da farne scaturire una collezione.
Antonio, sapevi a cosa andavi incontro?
Non avevo nessuna idea di quale sarebbe stato il mi approccio e la mia reazione al contatto con questa materia; non avevo la più pallida idea di come potessero reagire gli smalti su questi oggetti e questa mia assoluta mancanza di conoscenza nei confronti di questa arte ha fatto sì che io non avessi limiti, né remore, né pudori, né paure. Ho avuto lo stesso approccio di un bambino nel vedere, toccare, scoprire, nel divertirsi con un giocattolo. Ho poi affinato e trovato il punto di contatto con la creta fino a osare il recupero di vecchi pezzi e oggetti dismessi, mentre tutti mi sconsigliavano l’uso perché lo smalto non avrebbe preso o perché la creta si sarebbe rotta in cottura. E invece pustole, esplosioni, escoriazioni, sono stati gli esiti più belli. Così, questa mia maniera di esplorare, quest’animo di animista nel recuperare oggetti in disuso, l’attitudine a sperimentare discipline sconosciute ha portato alla creazione di circa cinquecento oggetti in ceramica.
Vincenzo, qual è la corrispondenza tra te e Antonio?
La corrispondenza con Antonio è talmente silenziosa da essere assoluta. Non è facile immaginare un dialogo più sincero e più contradditorio.
Antonio, in cosa Vincenzo ti assomiglia?
Credo che ci sia un modo di procedere complice pur non conoscendoci, pur non avendo nessuna confidenza l’uno dell’altro ma pur non essendo estranei. Ci siamo scambiati pochissime parole, lavorando con fatica, a ritmi serrati ma senza nessun affanno capendo da uno sguardo quando era il momento di fermarsi di fronte a un lavoro compiuto.
Vincenzo, come spieghi questo processo “degenerativo” che ha portato a una produzione così cospicua di opere?
Un culto involontario e inesorabile per la materia e una vocazione alla quantità possono solo condurre a un naufragio indispensabile per colmare l’abisso tra ideazione e realizzazione.
Dal disegno siete passati a condividere la scultura, com’è avvenuto questo passaggio?
A.M. Come tutte le cose è avvenuta in maniera del tutto naturale e con assoluta incoscienza. Pur non avendo nessuna esperienza con la creta mi sentivo spalleggiando da Vincenzo che già aveva avuto occasione di lavorare con la ceramica e questo mi ha dato serenità, sapevo di potermi appoggiare a lui. Il passaggio dal disegno alla ceramica o a qualunque altro progetto mi sembra assolutamente naturale quando è possibile condividere questo cammino con chi seppur non parlando capisce perfettamente la tua lingua.
V.D. Passare dall’arbitrarietà del foglio a quella dello spazio è stata una premeditazione naturale. Con Antonio diventa naturale ogni cosa, anche se parliamo di artefici. Poi tu, Francesco, hai fatto il resto.